Don Ettore Cannavera difende l'abolizione dell'ergastolo ostativo da parte della Corte europea dei diritti dell'uono ma richiama l'attenzione sulla necessita' di lavorare sugli adulti come si fa per i minori: ricercando le cause dei comportamenti criminosi.
"Il carcere non puo' essere definitivo, non puo' essere una condanna a morte. Perche' l'ergastolo ostativo, cioe' l'ergastolo senza alcuna possibilita' di usufruire di benefici, e' questo. E non ha senso". Cappellano per 22 anni nel carcere minorile di Quartucciu, dopo una pausa di un anno nell'istituto per adulti di Uta, don Ettore Cannavera, presidente della Comunita' di recupero per giovani adulti 'La Collina', specializzata nel proseguimento della pena per ragazzi appena maggiorenni, oggi e' anche il cappellano di una Rems, la struttura che accoglie gli ex internati degli ospedali
psichiatrici giudiziari.
Sulla polemica seguita alla decisione della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione all'ergastolo ostativo lui entra con equilibrio, schierandosi tra chi difende l'orientamento della Cedu ma senza mai perdere di vista l'obiettivo primario: la necessita' di intervenire sempre e
comunque sulla persona, senza dimenticare le responsabilita' sociali che spesso sono alla base dei comportamenti criminali. Il suo e' il punto di vista di chi con il carcere lavora da tutta la vita.
"Ho avuto un'esperienza diretta - racconta don Ettore - con un ragazzo di appena 18 anni coinvolto in un sequestro di persona. Il suo ruolo era custodire la persona sequestrata e per questo aveva avuto l'ergastolo, senza possibilita' di benefici. Il giovane era stato rinchiuso per due anni con il 41 bis e poi insieme abbiamo chiesto la grazia. In attesa di una risposta, che non e' mai arrivata, ha potuto usufruire della misura alternativa in comunita' e la magistratura di sorveglianza ce lo ha affidato.
Dopo un percorso impegnativo, che ha dato ottimi risultati, ha finito di scontare la pena (18 anni) in un luogo in cui ha potuto rivedere e progettare la sua vita. Non avrebbe potuto farlo dentro al carcere, tantomeno in una sezione 41bis. Oggi e' un uomo completamente riabilitato. La legge deve dare la possibilita' ai giudici di valutare caso per caso perche' molte persone riescono a cambiare, soprattutto se si tratta di giovani". E gli altri?
"Sono d'accordo sul controllo, che deve esserci sempre - sottolinea don Cannavera -. Bisogna verificare che i condannati si siano allontanati dalle organizzazioni criminali. Ma ogni azione deve essere programmata in funzione della possibile revisione del proprio comportamento. Far cadere l'ostativita' non significa liberare tutti, ma vuol dire togliere il 'mai'. Puo' darsi che per qualcuno la pena diventi 'mai', pero' dopo una attenta analisi, non a priori. E' necessario che tutti facciano un percorso, poi ci saranno casi in cui e' opportuno che le persone non escano mai o che escano dopo 20 anni, ma la decisione deve scaturire da un attento esame del detenuto".
Nel recupero dei giovani adulti condannati per mafia il primo intervento consiste nell'allontanarli dal contesto in cui e' stato commesso il reato. E spesso, di conseguenza, dalle loro famiglie. Come si concilia questo con le possibili aperture che potrebbero essere introdotte?
"In Comunita' c'e' uno strettissimo controllo sui rapporti con le famiglie - spiega don Cannavera -. Qui i familiari non vengono quando vogliono. Con alcuni genitori gli incontri sono rari. In carcere i detenuti possono fare colloquio ogni settimana, qui no.
Le famiglie 'regolari' possono venire da noi anche tutti i giorni, le altre no. In molti casi sono gli stessi ragazzi a non voler vedere i genitori, ma questa e' una scelta molto piu' gestibile in un posto protetto che non sia il carcere". "Per quanto riguarda la pena, la differenziazione non si deve fare sul reato commesso - specifica don Ettore - ma sulla storia delle persone. Con i minori gia' succede, perche' il magistrato deve capire qual e' il percorso educativoprima di condannare. Abbiamo il caso in Sardegna di due minorenni e tre giovani appena maggiorenni che hanno ucciso un ragazzo: va studiato il percorso educativo, familiare, di appartenenza. Bisogna chiedersi: perche' sono arrivati a fare questo? Non sono tutti e cinque uguali. Uno puo' venire da un certo tipo di formazione e di crescita. Un altro puo' venire da un percorso di abbandono. In quest'ultimo caso condanniamo il ragazzo due volte: prima perche' lo abbiamo abbandonato e poi perche' lo chiudiamo in carcere. Perche' non condanniamo anche le istituzioni, la famiglia, la scuola e la comunita' che non si sono occupati di lui? Dopo che e' stato privato del diritto all'affetto, allo studio e all'educazione io lo privo anche del diritto alla liberta': questa e' civilta'? E' troppo facile condannare e basta".
(Fonte: www.redattoresociale.it)